PREMESSA

Prima di sottolineare i momenti più significativi dell’odierna escursione, colgo l’occasione per trascrivere un bel brano sull’argomento, riportato dal Prof. Ferdinando Bianchi, nel volume “Il racconto dei Tolfetani”– Ed. Comune di Tolfa – Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia.

Il brano tratta del Vaccaro Rico - efferato e spietato brigante, uomo privo di scrupoli - negli ultimi momenti di libertà, tramandati oralmente da Balilla Mignanti e da Belisario, ritenuto quest’ultimo, “il più convincente fabulatore orale di cui si ha memoria nella nostra terra”.

E’ grazie ad aedi, a pupari ed a poeti a braccio come questi - maestri di quel canto popolare, del teatro da strada, che dalla madre Grecia si sono spinti fino ai nostri lidi, attraverso quel processo “ellenizzante” - che ci sono pervenuti tanti racconti, tante belle storie fino ai più noti poemi. Cose che andrebbero gelosamente raccolte e custodite prima che il processo di globalizzazione le spazzi via dalla memoria, assieme ai loro “cantastorie” ed alla loro significativa arte oratoria.

"la grotta di rico' "

Anche noi al Poggio del Finocchio, abbiamo trovato quello che, in un suggestivo articolo comparso sul periodico la Goccia, lo studioso civitavecchiese Carlo De Paolis, chiamò la Grotta di Rico.

Quella grotta si chiamava, prima di allora, con nomi diversi, ma non importano i nomi, a me dava l’idea della spelonca dei ladroni del profeta Geremia.

Tombe rupestri, abitazioni preistoriche o protostoriche, tombe etrusche o miniere abbandonate, dolmen come quello di Pian Soldano, il menhir Corona del Nibbio di Pian Cisterna, fanno del territorio tolfetano a volte ideale per i “briganti”, siano essi Robin Hood, Ghino di Tacco o Rico (o Rigo), e quel luogo in discreto pendio sopra il quale, quando arrivammo, risplendevano arcobaleni di nebbia, estiva, nelle pur profonde cavità, trasmise una sensazione vaga. Rigo, se Rigo il vaccaro abitava quella caverna a due stanze, non era un buon eremita come Piselletto, la Puttanella e Pietro il Santo, il quale a dispetto del nome sognava incontri notturni con una cantante degli anni sessanta, e altri che vollero scegliere l’emarginazione e la vita solitaria.

Aveva una donna incatenata (Rigo), rapita a Bieda quando era ancora fanciulla ed aveva un cane che gli divorava i figli che lei partoriva. Il vecchio Belisario, sotto la Rocca, il più convincente fabulatore orale di cui si ha memoria nella nostra terra, raccontò una volta che Rigo, il crudele, terribile, odioso brigante entrò in una sua capanna. Era il tempo della vendemmia ed era accompagnato da un cane. Chiese da mangiare per se e per il suo cane. Belisario non aveva bambini da offrire per il macabro sacrificio né aveva altro che potesse soddisfare quella sorta di sgraziato minotauro. Ma ne conosceva la leggenda e, volutamente, fece cadere addosso alla bestia un liquido che aveva sottratto, quella stessa estate alle lucciole, pazientemente ad una ad una quando la luna e la brina fanno inargentare il grano. Appena uscì dalla capanna il brigante, nutrito di olive e di noci, Belisario corse alla Tolfa a chiamare gli sbirri, e li porto dalle parti della sua capanna. Bella è la vendemmia, ma di notte se non c’è luna, i tralci delle viti hanno forme spettrali. Belisario e gli sbirri videro in lontananza la luminosità delle lucciole e circondarono la grotta di Rigo. Rigo si arrese, ma lì appena fuori dalla grotta, videro il cane che spolpava gli ultimi ossi dell’orrendo pasto. C’erano rimasti soltanto gli occhi e la madre, la donna di Bieda, piangeva su essi, con i capelli sciolti. Altri pastori e contadini la raccontano in modo diverso, ma se è vero che il sogno è l’infinita ombra del vero, a noi piace questa versione, così tragica e colta, di una nuvola di luce impigliata una notte d’autunno fra gli antichi rami della Tolfa. Così finì la leggendaria storia del brigante Rigo, come lo descrive “Balilla Mignanti” … uomo prestante, anche cortese, ma anche uno che …

“chi capitava in quegli orrendi artigli finiva in pasto al cane insieme ai figli.’- “


Conoscevo da anni l’esistenza della Grotta di Rico, la sua storia, ma non la sua esatta ubicazione. Questa, dicevano, doveva trovarsi sulla sponda sinistra orografica del Fiume Mignone, nei pressi di Poggio Finocchio.

Soltanto recentemente, su intercessione dello zio Ace, il Sig. G.L. Muratore, anche lui buon esperto ed amante del territorio, ci ha fornito le Coordinate GPS ella Grotta e le indicazioni precise di come fosse nascosta. Con cautela e curiosità ci siamo decisi, io ed Ace, in una bella giornata dello scorso Maggio a cercarla, ma se pur prossimi alla Grotta, un lastrone di tufo ce ne precludeva la vista, coprendo l’accesso dell’antro: ma ne eravamo stati informati e quindi ... Così nascosto rappresentava niente di meglio per l’ubicazione di un brigante!

Ci siamo ritornati in tre, i soliti due più Alfio, per studiare un percorso che fosse facile per il ns gruppo, e con il mio olito fiuto l'abbiamo trovato!

Ingresso Rico

Si trova la grotta in quota, su una costa di tufo nei pressi di Poggio Finocchio, infarcita tutt’intorno di tombe, sepolte da sedimenti, tra anfratti preclusi da liane, da tenace e spinosa vegetazione di sottobosco, rovo, smilax aspera e radici secolari di alberi di alto fusto, spinte fuori alla ricerca della vita.

In alcuni punti la risalita diretta sul costone è impossibile, enormi blocchi di rocce poligonali, scivolati dall’alto, sono bloccati provvisoriamente da cunei di roccia o dalla tenacità di bassi arbusti posti in dissesto, così, in bilico sull’erto pendio, sono sempre pronti a proseguire al fiume la discesa intrapresa.

Ma gli “audaci” giunti fin qui, dietro quel naturale “separé” di tufo, dopo aver superato le varie peripezie, attraverso un corridoio angusto, a cielo aperto, varcheranno finalmente il fiero portale della Grotta!

L’opera è decisamente frutto dell’ingegneria etrusca


Gli storici locali tramandano che tale Grotta fu abitata dal Vaccaro Rico intorno al 1840. Le cui “specialità” criminose e gli ultimi momenti di libertà, sono ben trattati nel testo del Prof. Bianchi. Ma oltre alla leggenda di Rico il vaccaro, sembra che l’antro fu anche abitato da un altro esponente della malavita, tal Enrico Stoppa, vissuto però in un periodo successivo.

Rico il Vaccaro era un “brigantello” locale, spietato, con una pessima fama per quella deprecabile storia dei “particolari pasti al cane”. Fatto che potrebbe esserci giunto distorto, per quanto un noto proverbio recita “Vox populi vox dei”. Rico si potrebbe classificare come un fuorilegge da strapazzo, capace di piccole estorsioni, grassazioni, furti di bestiame, che sfuggì temporaneamente alla cattura dandosi alla macchia. Altre sue gesta non ci sono state tramandate, così pure nessuno sa dove è stato celebrato il processo giudiziario, che fece seguito all’arresto. Appartiene, questo personaggio, al brigantaggio “sommerso” dell’Alto Lazio, che nel 1800, brulicava nei boschi della Tuscia e della Maremma.

Questa losca attività criminale, frutto estremo della disperazione della povera gente, nullatenente, abbandonata agli scrupoli ed alla strafottenza dei latifondisti, dei prìncipi della chiesa, martoriata dai morsi della fame e dalle “terzane” maligne della malaria, da questo stesso ventre vennero alla luce i vari Tiburzi, Fioravanti, Biagini e Menichetti.

Cosa diversa é la storia dello Stoppa, toscano di nascita (Talamone 1834) ma Caprolatto di origine (Caprarola). Lo Stoppa, presumibilmente, abitò la “nostra Grotta” in un momento successivo a quello di Rico il vaccaro.

Egli rappresentava la cattiveria impersonificata, elevata al quadrato, sprezzante e prepotente, come i membri della sua famiglia! Le sue gesta, accertate, sono costellate di crimini efferati, compiuti, a volte, per il semplice sospetto di “spiate” o compiuti a titolo gratuito, per il gusto ed il piacere di procurare male a gente invisa.

Ma, per quanto abile ed astuto, la sua attività criminosa finì nel 1862, dopo un banale arresto in Roma, la classica scivolata su una buccia di banana, che dette la possibilità di tirare un sospiro di sollievo alle persone scampate dalle sue grinfie.

Condannato al carcere a vita, trasferito in una prigione “dura” delle Murate di Firenze. Con ostinata volontà, rinchiuso in una cella di piccole dimensioni, ove soltanto una minuscola finestra lo legava al resto del mondo, rifiutò di alimentarsi, dandosi pazzamente alla “masturbazione”, per accelerare la data della sua morte, cosa che non tardò a venire nel 1863.

Aveva allora 29 anni soltanto ed un vissuto spaventoso e raccapricciante, come soltanto pochi della sua risma potevano “vantare”. Non si accertò mai il numero delle persone che effettivamente soccombettero, senza pietà, sotto i colpi del suo fucile. Arma che ben sapeva maneggiare, perché dotato di una mira infallibile pur sparando, a distanza, a“palla”. Il suo dominio incontrastato era l’impervia macchia dell’Uccellina, da Talamone ad Alberese, che conosceva alla perfezione, ove anche di notte sapeva muoversi.

Un giorno sfidò persino da solo, tre carabinieri contemporaneamente, che stavano pedinandolo, si fermò e li uccise immancabilmente e spietatamente, uno dietro l’altro. Altre tre persone furono fatte fuori in un sol mattino. La sua furbizia superava la sua genialità. Se qualcuno nelle “osterie”, di passaggio da Talamone e dintorni, luoghi che il brigante spesso frequentava, e sotto l’effetto dei fumi dell’alcool si lasciava sfuggire, in tutta confidenza, di essere in possesso di una certa somma per sbrigare un particolare affare, aveva di certo chiuso con la vita! Lo Stoppa seguiva il malcapitato, lo uccideva proditoriamente, ripulendogli le tasche. Non lasciava tracce! Il corpo finiva scaricato nel folto delle macchie. Quando tempo dopo quei pietosi resti venivano rinvenuti, difficile era stabilire di chi fossero, senza documenti o denuncia di scomparsa.

Di lui, un certo Cirri, cantastorie di Poggio a Caiano, così cantò:

“Il cuore di costui feroce e forte

Ostinossi, a non prendere alimento.

Senza mangiare, da passion convinto,

nella sua cella fu trovato estinto.”

COME LO STOPPA FINI’ NELLA GROTTA DEL FU RICO …

Leggendo la storia dello Stoppa “Sparviere della Maremma”, come lui si compiaceva farsi chiamare, si apprende che intorno al 1860, fuggendo dalla natia Talamone, passò dalle nostre parti perché ricercato nel Granducato.

Presso la tenuta della Farnesiana venne informato che, per giungere in maniera “sicura” a Roma schivando opportunamente Civitavecchia, dove era diretto, doveva transitare per i Monti della Tolfa. Questa informazione la raccolse da alcuni butteri al servizio del Marchese Guglielmi, tra cui un certo Carlo Pasquini di Tolfa. Qui presumibilmente apprese l’esistenza di una grotta ben nascosta ove avrebbe potuto passare la notte.

Dalle nostre parti cercò quella residenza lontana dagli sbirri, forse si trattenne qui per due o tre mesi, presentandosi sotto il falso nome di Giulio Lena.

Prestò opera di vaccaro nella fattoria di Bartolomeo e Sante Pescini in S. Severa Nord, comune di Tolfa. In serata presumibilmente rientrava nella grotta, lontano da occhi indiscreti, dai sentieri aperti verso boschi circostanti.

In quel luogo, impervio ed isolato dal mondo, si trovava a suo completo agio ed in tutta sicurezza. Il bosco era molto simile a quello dell’Uccellina, lontano ed irraggiungibile dai mandati di cattura del Granducato, ove l’aria, per lui, era divenuta ormai irrespirabile.

Furono dunque due i briganti dal nome “Rico” che “abitarono la nostra grotta”! Combinazione strana, di certo, ma è questo che ci è tramandato. Due “galantuomini” i “Rico”, non c’è che dire, stessi nome e squallida professione, “colleghi” di lavoro pur vissuti in epoche diverse.


ore 08:30 .. si parte!

Nelle escursioni, non c’è momento più controverso che quello di aspettarsi di finire sotto un’incessante pioggia. Avere il coraggio di non osare o, andare avanti con condizioni meteo incerte, senza speranza, e ritrovarsi poi al cospetto di una giornata meravigliosa. Il tutto in odore di miracolo! Ma noi che abbiamo scelto, “per vocazione”, di superare certi dilemmi, noi si va … sempre perché talvolta la fortuna può arridere agli stolti agli improvvidi ed agli audaci soltanto!

La nostra giornata comunque ha sùbito, fin dalle prime ore dell’alba, presentato una situazione meteo preoccupante. All’appuntamento c’erano però tanti, tanti eroi, che la pensavano alla stessa maniera. Nelle vetture 25 – 30 persone stipate, tra cui molti bambini.

Intorno alle 10, nei pressi del luogo dell’escursione, cercando di non realizzare che sul parabrise si spiaccicavano grosse gocciole d’acqua come fiocchi di neve, volgevamo gli sguardi verso gli alti orizzonti. L’altipiano di Piantangeli, visibile solo dalle sue pendici sembrava molto più distante, coperto da nubi grigio-plumbee, presagio inequivocabile! Ma poi, d’incanto, dopo aver superato innumerevoli “meandri” dell’antica strada del Marano, qualche spiraglio tra le nubi permetteva timidi fendenti di luce di schiarire l’aria intorno. Caldi raggi cominciavano a materializzarsi qua e là sui boschi e sui prati, si componevano e si sdoppiavano, si rincorrevano e sparivano per ritornare al loro posto, finché le nubi più fitte sospinte da forte vento di quota magicamente si dissolvevano in tenui sfumature, liberando un cielo azzurrino, aria tersa come di rado si vede, liberando ovunque forti luci e colori a risplendere! Ed allora … allora non resta che godersi l’uscita! Discorsi e sentieri senza rabberci, abbiamo fino al tramonto sufficiente tempo a disposizione ancora! Ma soprattutto via ombrelli ed impermeabili. Bella discesa ci attende verso i campi di Mignone, sulla destra sorride l’amena tenuta del sardo: cipressi alla “toscana”, attorno al bel casale terra Siena chiaro, contornato da prati svizzeri e querce rade. Che abbia capito tutto questo isolano!

Discendiamo la carrareccia affiancata da una lunga teoria di poste al cinghiale, ma quale significato hanno queste torrette oggi? Fronte della morte per i figli del bosco, senza nessuna tutela, animali inutili e nocivi! Ed oggi pur nel pieno “dell’apertura al cinghiale”, non c’è nessun fucile spianato! Fosse in stato di abbandono il luogo? Ma no, non é il caso di farsi soverchie illusioni, non c’è dubbio prima o poi torneranno le doppiette, gli spari e le canizze, tra i “pea pea” dei battitori, si consumerà un’ulteriore giornata campale, con tanti corpi inermi allineati, di figli di nessuno, riversati sulla strada.

Fiancheggiando lentamente il Fosso di Costa Grande, raggiungiamo lentamente un’ansa recondita del Mignone, bella e selvaggia, perché inospitale per l’uomo. Ora risaliamo l’erta china distratti dalla notevole fruttificazione fungina. Poi dopo un ampio giro, eccoci sull’ingresso della Nostra Grotta. La porta d’ingresso è di chiara fattura etrusca, come pure la scarpellinatura del soffitto e delle pareti interne.

Disponiamo di tre potenti pile per illuminare l’antro, ma sembra quasi impossibile, la luce viene assorbita dal profondo e non restituita a guisa di “buco nero” cosmico.

 La scarsa illuminazione non ci impedisce però di vedere, una volta abituati gli occhi alla scarsa illuminazione, i fori nei muri ove erano piantati i tirafondi e quindi anelli e catene che tenevano immobilizzata la ragazza di Rico, quando il brigante andava in “giro” a sbrigare i suoi affari. La prima stanza é alta circa due metri e venti, larga quattro e profonda almeno dodici ed ha, sull’ingresso, un’apertura nel cielo per scaricare i fumi del focolare .

Un’altra stanza adiacente la prima, il cui pesante soffitto, nel cedere una parete laterale, si è posto pericolante in diagonale. Una finestra lascia filtrare una luce insufficiente. Qualche dubbio che la sua apertura sia coeva al resto della grotta.

Il soffitto delle stanze è colonizzato da alcune famiglie di pipistrelli, che illuminati soffrono i fasci di luce. Ci sono ancora, sulle pareti, grossi ragni e falene. Tutti questi abitanti convivono perfettamente senza danneggiarsi tra loro, in una perfetta e strana simbiosi. Finisce qui, oggi, il nostro tuffo nel mondo del brigantaggio che, per quanto perverso e discutibile, resta sepolto sotto una nuvola di polvere e fascino.

Vani 17 Novembre 2013


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LA SCOPERTA!
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